venerdì 18 giugno 2010

Seminario estivo dedicato all'ermeneutica del Concilio Vaticano II: sta in quel "cenacolo" il vero Ratzinger (Paolo D’Andrea)


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Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:

Sta in quel "cenacolo" il vero Ratzinger

Paolo D’Andrea

Nell’ultimo week end di agosto, ancora una volta, Papa Benedetto XVI aprirà le porte della sua residenza estiva di Castel Gandolfo al gruppetto ben assortito dei suoi ex allievi di teologia per passare insieme almeno qualche ora intensa di studio a porte chiuse.
Al centro della rimpatriata accademica dell’ex professore bavarese col suo cenacolo di ormai attempati ex laureandi – una quarantina di persone – ci sarà l’ermeneutica del Concilio ecumenico Vaticano II, argomento da anni al centro di agguerrite polemiche cultural-teologiche.
Anche il nome dell’esperto chiamato a tenere la relazione principale al convegno è di tutto rilievo: si tratta dello svizzero Kurt Koch, l’emergente vescovo di Basilea che dal prossimo primo luglio diventerà “ministro dell’ecumenismo” vaticano.
La platea di tali giornate di studio di fine estate è selezionata e “sui generis”. L’incontro annuale con i suoi ex allievi (tra cui il cardinale austriaco Christoph Schönborn, oggi nell’occhio del ciclone) è per il Pontefice un momento intimo e informale, l’occasione per tornare a assaporare la condizione dello studioso, circondato dai suoi amici “dottori”, che si confronta serenamente e senza censure coi temi anche controversi dell’attualità teologica e culturale. Per questo l’ex professor Ratzinger non ha voluto interrompere questa tradizione, iniziata ai tempi del suo insegnamento nelle facoltà teologiche di Tubinga e Ratisbona, neanche quando è diventato arcivescovo, cardinale prefetto e addirittura Papa.
Quest’anno, il simposio si confronterà con un tema quanto mai avvertito dal pontificato ratzingeriano. Caricature di opposta fattura gareggiano nel presentare il Papa bavarese come l’affossatore delle riforme innescate dal Concilio Vaticano II, o come il provvidenziale “fustigatore” di tutte le presunte storture da esso partorite.
Il giovane Ratzinger, enfant prodige della teologia tedesca, partecipò da protagonista alle iniziative dell’ala riformista del Vaticano II. Come teologo «perito» del cardinale Joseph Frings ispirò molti dei dirompenti interventi dell’arcivescovo di Colonia, colui che fin dall’inizio sabotò la prospettiva di un Concilio “addomesticato” secondo i desiderata della Curia romana.
Durante le diverse sessioni, il professore di teologia dogmatica partecipava spesso – insieme a Rahner e a Congar, a Küng e a Danièlou, a Schillebeeckx e a Haring – alle riunioni di «strategia conciliare» del gruppo informale di teologi e vescovi –soprattutto tedeschi e francesi – che suggerivano gli interventi dei padri sinodali del centro-Europa.
Ma già allora i suoi interventi e le sue scelte apparivano immuni da ogni deriva “estremista”. L’immagine di riforma da lui perseguita è sempre stata quella del ritorno ai Padri della Chiesa e alle sorgenti della vita di fede: una semplificazione che liberasse la forma ecclesiae dalle incrostazioni del tempo e tornasse a mostrare il volto autentico e attraente della Chiesa.
In perdurante fedeltà a questa aspirazione, Ratzinger fin dall’immediato post-Concilio ha sviluppato la sua disamina critica delle strade imboccate da una parte dei teologi “novatori” con cui pure aveva condiviso l’entusiasmo per il rinnovamento conciliare. In esse vedeva affiorare un nuovo, paradossale «trionfalismo» incarnato dai teologi a la page, quelli convinti di cavalcare lo spirito del tempo. Non sono recenti neanche le sue perplessità sulle modalità d’attuazione della riforma liturgica: fin dal 1966, durante una conferenza tenuta a Bamberg, aveva espresso il suo disagio davanti all’«affaccendarsi fine a se stesso» dei nuovi liturgisti.
Più di recente, Benedetto XVI ha esposto compiutamente il suo pensiero sull’interpretazione del Concilio nel famoso discorso alla Curia del 22 dicembre 2005. È in quell’intervento che il vescovo di Roma ha messo a confronto la fuorviante «ermeneutica della rottura o della discontinuità» (che contrappone Chiesa pre e post-conciliare come realtà inconciliabili) con la feconda e paziente «ermeneutica della riforma», quella che sa fare spazio alla novità nella continuità, riconoscendo che «solo i principi esprimono l’aspetto duraturo», mentre «non sono ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti».
Quel discorso, negli ultimi anni, viene citato a man bassa da chi in forme più o meno soft auspica una damnatio memoriae del Vaticano II, presentato come vaso di Pandora di tutti i mali e le debolezze della presente stagione ecclesiale. Ma a guardar bene, i più accaniti supporter dell’ermeneutica della discontinuità sono diventati oggi proprio i detrattori dell’ultimo Concilio.
I più espliciti tra di loro sostengono senza mezze misure che nei primi anni Sessanta i padri conciliari avrebbero dato vita a una Chiesa nuova, diversa da quella voluta da Cristo, realizzando un «cedimento” al mondo testificato in particolare dai documenti conciliari su ecumenismo, libertà religiosa e dialogo con le religioni.
È stato lo stesso Papa Benedetto XVI a rispondere a tali fisime, quando nello stesso discorso ha ricordato che proprio il confronto con alcune istanze della modernità ha favorito la riscoperta di alcuni tratti tradizionali del rapporto tra la Chiesa e il mondo. «Il Concilio Vaticano II – sottolineò quella volta il Pontefice – con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità».
Per tutto questo, fare di Joseph Ratzinger un “pentito” del Concilio è un’operazione-maquillage fatalmente destinata al fallimento. Già nel 1992 il vaticanista Lucio Brunelli gli domandò se davvero – come sostenevano alcuni – era venuto il momento di fare un Concilio Vaticano III per “correggere” le defaillances dottrinali e disciplinari del Vaticano II.
La risposta dell’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio fu istintiva e inequivocabile: «Per carità!».

© Copyright Il Secolo d'Italia, 18 giugno 2010

2 commenti:

Ben ha detto...

Con buona pace di Mons. Brunero Gherardini...

Anonimo ha detto...

Questa pagina ( http://www.luogocomune...) mostrava la foto integralmente già dal febbraio di quest'anno. Del resto bastava andare alla seconda pagina di google immagini cercano "Ratzinger..." per scoprire la manipolazione....
Cari miei, è pura malafede.